martedì 3 aprile 2012

Atti dell'Associazione: 1/4/2012 serata "In ricordo di Lucio"


                 La serata di domenica dedicata a Lucio Dalla si è rivelata di uno spumeggiante dibattito e di profondo significato. Insomma una vera serata da “20 luglio”. La discussione avente per tema l’essenziale domanda “può l’arte vincere la morte?”, domanda da porsi, anzi sacrosanta dinanzi alla scomparsa di un sì grande artista, è approdata ad una risposta, di certo affermativa, che qui tenterò di riportare.
                Innanzitutto cos’è l’arte? Sfuggendo alle definizioni che i filosofi dell’estetica ci hanno dato, ognuna diversa, esse si possono condensare nel fatto che l’arte è la forza creatrice di un qualcosa che ha un’anima. Intendiamo con questo termine un’accezione prettamente laica, cioè una cosa che ha una propria essenza originale, profonda , monadica.
                L’artista dunque è colui che riesce a infondere alla sua creazione un’anima. E dove la trae, visto e considerato che nulla si crea dal niente, e nulla si distrugge, se non dalla propria, individuale essenza? L’artista è colui che insuffla nella propria creazione una parte di sé, della propria anima. Al pari proprio del Dio Creatore, che nella Creazione rimane presente. E sia quest’anima immortale o meno, già questo passaggio, non ha dato luogo ad una procreazione? Non si è già immessa in una materia inerte, attraverso il lavoro e lo sguardo dell’artista, qualcosa che non aveva, uno spirito, un’anima appunto? L’artista insomma perpetua se stesso attraverso la sua creazione, e in ciò già vince la morte, perché sia pure il suo organismo mortale, con l’atto creativo egli ha perpetuato la sua essenza originale.
                Non parliamo, e non abbiamo parlato, qui di fama presso i posteri, anch’essa mutevole e temporanea. Fosse anche un’opera d’arte negletta e misconosciuta, o conosciuta solo dal suo creatore, l’atto stesso della creazione artistica è bastevole per fuoriuscire dal vincolo dell’io individuale, si dissolva o meno quest'ultimo col corpo, e immettere pezzi di questo io, pezzi di senso dunque, nell’opera d’arte.
                Infatti l’oggetto artistico si differenzia da quelli comuni proprio in base a questo, perché ha un senso, un significato che va oltre la sua forma.
                Il vedere il film “Quijote” di Mimmo Paladino ha esplicitato questo concetto. Don Chisciotte infatti è colui, il pazzo (ma ogni artista non è un pazzo?) che in una pentola vede un elmo, in un mulino dei giganti, in un basso nobile spagnolo di nome Alonso Quijano detto “il buono”, quale egli è nominalmente, l’ultimo dei sacri cavalieri erranti. Refrain di questo film è infatti il derisorio biasimo della voce narrante, il giocoliere delle parole Bergonzoni, verso Don Chisciotte, e quelli come lui: “dei pazzi che vogliono vedere la vera natura della cose”.
                Cosa fa l’artista del resto se non cercare di vedere la vera natura delle cose? Come sostiene Heidegger egli è un poietes, un creatore di senso perché da parole, da situazioni, da oggetti ricava qualcosa che vada oltre questi, e lo fa, a detta nostra, infondendoci parte del senso che porta in se medesimo, nella sua, laicamente, cosiddetta anima.
                L’analisi di una canzone di Dalla, dal suo quinto album, “Il giorno aveva cinque teste”, ci ha permesso di scrutare il curioso rapporto tra artista e fautore dell’opera.

IL COYOTE
La gara è fra il coyote e una stella
a chi sa e vuol raccontare
il gruppo più fantastico di storie
che si possa ricordare
ma mentre il coyote è
un mancatore di parola e un mentitore
la stella che cadente è la più bella
con la coda che si muove con splendore
e su una pietra i due stanno nel fuoco della notte
a raccontarsi a turno con le voci calde o rotte
la stella parla adagio e il coyote grida forte
buttati in questo gioco, per chi perde c'è la morte.
Ma col passar del tempo
la stella fa fatica a raccontare
e invece le parole del coyote corrono
come acqua di un fiume verde verso il mare
e mentre passa il vento in alto un'aquila si desta
e carica di voci, luci è tutta la foresta
la notte passa  e il cielo è rosso di mattino
finisce questa gara incominciata dal destino.
La stella allora si dichiara spenta e muore
ed ora è un pugno di cenere il suo splendore.
Perché vince il coyote
il racconto non lo dice ma lo lascia immaginare
la vita è fantasia, è coraggio,
è lotta dura con la voglia di inventare
e se la stella con la coda tante storie raccontava,
la fantasia del coyote col suo fuoco la bruciava
e poi faceva ascoltare l'erba crescere sulla mano
e il grido della risacca di un prossimo uragano.

                Secondo un’interpretazione equiparabile alla domanda iniziale, la stella, la raccontatrice di storie, potrebbe essere l’artista, mentre il coyote, colui che alla stessa ulula, il fruitore, il consumatore dell’opera. “E se la stella con la coda tante storie raccontava,/ la fantasia del coyote col suo fuoco la bruciava”, recita il bardo. Alla fine vince il coyote, colui che, seppur microbo in confronto alla stella, alla fine rimane sempre desideroso di nuove storie da rubare alla medesima. Dunque l’artista è vero, passa e muore, come la stella, ma i coyote si riproducono, e finchè esisterà umanità, la loro sete di storie non si spegnerà mai.